TUTTI (I) SANTI

Solennità di Tutti i santi
Oggi facciamo memoria della stupenda compagnia dei santi, l’innumerevole schiera  di fratelli e sorelle che hanno vissuto bene i loro giorni in questo mondo e sono già entrati nel mistero della vita eterna e nella comunione con Dio. Dovremmo recuperare uno sguardo più serio e sereno verso queste figure, perché spesso di loro abbiamo un’idea un po’ idealizzata. Anziché averli come preziosi compagni di viaggio nell’avventura della vita, li vediamo come personaggi straordinari e inimitabili, assai lontani dalla mediocrità dei nostri giorni. 

Tanti
Nel libro dell’Apocalisse riceviamo già una sorprendente notizia: i santi sono tanti, tantissimi! Non è vero che le persone buone e giuste sono poche nel mondo, il veggente di Patmos afferma che i santi sono «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9). Certo, noi siamo sempre più inclini a mettere in primo piano i cattivi e gli ingiusti, secondo un costume invalso anche nei mezzi di comunicazione. Perché è nella nostra natura esorcizzare ciò che ci fa paura e ci atterrisce mettendolo in mostra. Attraverso questa operazione ci illudiamo di tollerare meglio la nostra condizione, osservando come qualcuno, in fondo, stia molto peggio di noi. Invece per Dio quello che brilla e merita di essere posto in evidenza è proprio il bene e la grande schiera di persone che lo hanno compiuto e lo compiono. Mezzo pieno, anzi, molto pieno è il bicchiere ai suoi misericordiosi occhi.

Amati
Ma cosa fa questa moltitudine? «Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (7,9) e cantavano, anzi gridavano un canto: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all’Agnello» (7,10). Nessuno si vanta né si gloria di se stesso, dei propri meriti o dei traguardi raggiunti, ma tutti riferiscono la loro salvezza unicamente al Dio che si è donato e rivelato sul trono della croce. I santi non appaiono affatto come le persone riuscite e affermate, quelle che si sono meritate un bel posto al sole nel regno di Dio. Al contrario, appaiono come quelle che, al termine dei loro giorni, sono riusciti a capire che la vita è il dono incondizionato che Dio fa all’uomo, fragile e peccatore. «Uno degli anziani» (7,13) descrive proprio così questa immensa moltitudine: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (7,14). Detto in altri termini, i santi sono le persone che hanno compreso «quale grande amore ci ha dato il Padre» (1Gv 3,1) fino a sperimentare come questa offerta d’amore, così larga e incondizionata, consenta di sentirsi ed «essere chiamati figli di Dio» (3,1). Non si tratta di una semplice metafora, perché figli di Dio «lo siamo realmente» (3,1) esclama san Giovanni. Nel cuore dei santi ha fatto breccia la buona notizia del vangelo, il ricordo indelebile del cuore di Dio, che si è fatto uomo come noi e per noi, offrendo la sua vita al posto della nostra. 

Noi

Tuttavia «ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2), perché restiamo persone libere e in cammino verso l’eternità. Pertanto questa nostra condizione di santità è un piccolo seme da difendere e far crescere, affidato alla nostra responsabilità e alla nostra libera scelta. Dio ci dona tutto ma non può certo obbligarci a diventare figli amati. Ecco allora il vangelo delle beatitudini (Mt 5,1-12), a strapparci dal triste inganno di una cultura che continua ad affermare che per toccare il cielo con un dito — per essere felici — bisogna occupare un prestigioso ruolo sociale, conquistare gratificazioni e riconoscimenti attraverso gli strumenti del possesso e del potere. Le Beatitudini proclamano invece che la strada verso una vita piena non sta fuori, ma dentro di noi. Ci assicurano che non è vero che siamo tutti destinati alla felicità. È vero esattamente il contrario: la felicità è destinata a noi, da sempre, da Dio nostro Padre. La chiave della gioia autentica non sta in cima ai nostri desideri frustrati, ma in fondo alla consapevolezza di quello che siamo. Le Beatitudini sono l’invito ad accogliere quello che ciascuno si ritrova a essere con gratitudine, rifiutando l’illusione che la vita possa cambiare per l’intervento di qualcosa di esterno ed estraneo a noi stessi. La povertà di spirito è l’attestazione che la realtà, così com’è, può diventare luogo e modo di felicità, l’invito a credere che non esiste altro che possa rendere felici se non quello che si è e quello che la vita ci permette di essere. Allora i santi non sono persone da invidiare troppo, ma da guardare con un sorriso sul volto e una preghiera nel cuore, come quell’umanità pacificata che ci infonde speranza. Anzi, se c’è qualcuno che può avere invidia, questi sono proprio loro. Perché noi abbiamo qualcosa che essi ormai non hanno più: il tempo e la storia, la fantasia e l’occasione di salire sul palcoscenico della storia per dire il nostro «grazie» e il nostro «eccoci!». Noi piccoli, poveri, spaventati, meravigliosi discepoli del Signore risorto. 

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