![]() |
XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
|
Al termine dell’anno della fede, la liturgia di questa domenica insiste sul tema della risurrezione, orizzonte in cui si compie tutta la speranza cristiana. Già ai tempi di Gesù non era facile assumere una posizione stabile e chiara davanti alla prospettiva di una vita capace di liberarsi dai lacci della morte. Per noi che viviamo dopo la pasqua di Cristo le cose dovrebbero, almeno in parte, essere più luminose. In realtà la fede nella risurrezione resta un passaggio stretto per ogni generazione umana, dal momento che non riguarda solo la «vita futura» (Lc 20,35), ma il modo con cui si affronta quella «di questo mondo» (20,34). Il mistero della risurrezione, ieri come oggi, solleva domande.
Risurrezione?
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi — i quali dicono che non c’è risurrezione — e gli posero questa domanda [...]» (20,27). I sadducèi erano una sorta di aristocrazia intellettuale in Israele. Molto aperti da un punto di vista politico, con generose aperture al governo romano, erano invece piuttosto chiusi dal punto di vista dottrinale, attenendosi in modo rigoroso a quanto (e solo quanto) stava scritto nella Torah. Un giorno si avvicinano a Gesù e gli pongono il caso di una donna che rimane senza figli, nonostante sette fratelli abbiano cercato di prenderla in moglie, in obbedienza alla legge di Mosè che imponeva ai fratelli di un marito defunto di assicurare «una discendenza al proprio fratello» (20,28) prendendo in moglie la cognata. Perché, nei tempi antichi, si avvertiva forte il bisogno di perpetuare la vita umana (e oggi?). La domanda rivolta a Gesù rivela uno sguardo verso il futuro molto influenzato dal modo di affrontare il presente. C’è infatti nelle loro parole qualcosa di astratto e disinteressato, tipico di quando ci si rifugia nelle questioni di principio per non lasciarsi toccare dal dramma della realtà. Un modo di parlare e di fare informazione non distante da quella verbosità violenta e spudorata di cui è satura la nostra società mediatica, dove il dolore umano è ridotto a merce giornalistica, il mistero del male esposto senza il decoro della compassione e il giudizio delle misericordia.
Prendere e morire
Per i sadducèi non c’è «risurrezione per la vita» (2Mac 7,14) perché essi, attraverso il benessere e il potere accumulato, evitano accuratamente di affrontare lo scandalo della morte di cui tutti fanno esperienza, soprattutto i poveri e i piccoli. Più che non esserci, a loro la risurrezione non interessa che ci sia, dal momento che si stanno giocando solo nello scenario di questo mondo, dove le persone «prendono moglie e prendono marito» (Lc 20,34). Sono lontanissimi da quel modo di interpretare le occasioni e gli imprevisti come momenti per riporre fiducia nel Dio «dei viventi» (20,38), testimoniato con limpidezza da quei «sette fratelli» (2Mac 7,1) che si dichiarano «pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri» (7,2): «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati» (7,14). Esiste infatti un modo di vivere che sta (sempre) dalla parte del prendere e del possedere. Così come ne esiste un altro che è illuminato dalla logica della risurrezione e si esprime nel dare e nel restituire. Ogni giorno, nelle piccole e nelle grandi circostanze, ci giochiamo la scelta tra questi due orizzonti. C’è un modo infantile, aggressivo, perennemente insoddisfatto con cui ci abbarbichiamo alle cose e alle persone, cercando appagamenti affettivi, succhiando illusioni e arraffando surrogati di gioia. In questa logica i conti — quelli che paghiamo e facciamo pagare — non tornano mai. Perché si prende e poi si muore.
Non prendere e non morire
Ma c’è pure un modo di vivere “senza prendere” che i «figli di Dio» (Lc 20,36) imparano, come un’arte e un’educazione del cuore. Un modo che sarà pienamente visibile e comprensibile solo nella «vita futura», quando tutti saremo «figli della risurrezione» (20,36), ma che già ora si esprime nella capacità di assumere relazioni libere con tutto e con tutti. Liberi soprattutto dalle ansie di misurare le cose attraverso la paura di perderle. I discepoli del Signore risorto ricevono dal suo Spirito la forza per collocare le cose in uno scenario più grande, dove si vive per Dio e non in virtù delle forze e delle occasioni di questo mondo, sempre così bizzarre e apparentemente inique. Da sempre i cristiani si coinvolgono nel mondo, senza lasciarsi determinare dalla logica del mondo. Ciò non significa assumere posture e atteggiamenti disincarnati, di affettata spiritualità, ma cogliere «ogni opera» da compiere e ogni «parola» (2Ts 2,17) da dire, nel suo giusto significato. Non smarrendo mai la memoria di «Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza» (2,16). Relativizzando le ansie di fronte alle sfide che ci vengono poste. Restando liberi dalla necessità di sopravvivere. Soprattutto, ricordandoci che se prendiamo moglie o marito, non è solo per continuare la discendenza umana, ma per vivere un «grande mistero» (cf. Ef 5,32) d’amore, che testimonia la fecondità e la compassione di Dio. Che se scegliamo o accettiamo di non sposarci, non è per godere o sopportare i privilegi della solitudine, ma per annunciare al mondo che tutti siamo giudicati degni di una vita futura, nella quale non è più possibile morire. Noi cristiani «abbiamo questa fiducia nel Signore» (2Ts 2,4).
Commenti