XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
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I vangeli che scandiscono il tempo estivo sembrano scelti apposta per offrire anche al nostro spirito l’agognato riposo che pure i nostri corpi cercano. Lo fanno, come di consueto, attraverso proposte forte e radicali, cercando di far maturare il sogno di Dio per l’umanità: che ogni donna e ogni uomo diventi, progressivamente, «perfetto in Cristo» (Col 1,28). Il celebre soggiorno di Gesù nella casa di Marta e Maria è una splendida occasione per recuperare il motivo del nostro affannoso vivere, per verificare se e come ci stiamo prendendo la parte migliore della vita.
La parte migliore
«In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò» (Lc 10,38). Offrire cibo e ristoro allo straniero rientra tra i doveri e i costumi che ogni israelita porta scritto nel cuore. Le Scritture insegnano quanta benedizione possa scaturire dal dare ospitalità al forestiero in cammino. Come è capitato ad Abramo e Sara, il cui amore vecchio e sterile diventa capace di generare nuova vita, dopo aver accolto nella loro tenda il «Signore» apparso nella forma di «tre uomini» (cf I lettura). Marta sa bene come si celebra il rito dell’ospitalità: fa entrare Gesù in casa e, in pochi istanti, è tutta presa da «molti servizi» (10,40). In un attimo, tutta la concentrazione di Marta si rivolge all’impegno di mostrare all’illustre invitato la «parte migliore» che la sua casa può offrire. È proprio così che ci comportiamo tutti, quando siamo chiamati ad accogliere qualcuno nella nostra tenda. Bisogna esibire il servizio più bello, preparare i piatti più gustosi, indossare la maschera più presentabile per puntare alla miglior figura che si possa fare. L’ospite è — spesso — una presenza gradita che ci arricchisce con la sua presenza, ma è pur sempre un esame. La pressione del suo sguardo diventa inevitabilmente un giudizio a cui è impossibile sottrarsi. Un po’ della nostra libertà finisce davanti agli occhi dell’altro, poiché sappiamo che egli ci guarda e ci giudica. Invece, sua sorella Maria si prende una grande libertà, quasi incurante di dover attivare un cerimoniale di accoglienza: «Seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola» (10,39). Maria non si sente obbligata a far nulla per il Maestro entrato in casa, e si lascia così inondare dall’allegria della visita, godendosi l’ospite e la sua ricercata voce.
La parte peggiore
Marta sopporta un po’ la situazione, ma a un certo punto non ce la fa più e sbotta. Si fa avanti e dice a Gesù: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire. Dille dunque che mi aiuti» (10,40). Curiosamente, non se la prende con la sorella, a cui avrebbe potuto con garbata discrezione rivolgere una bella strigliata, ma con lo stesso Maestro. In questo sottile rimprovero — che arriva persino all’audacia di un’imperativo — possiamo scorgere ciò che si cela nel cuore di Marta. Dietro al suo attivismo c’è in fondo l’attesa di una ricompensa, la pretesa di essere riconosciuta e, quindi, apprezzata per il servizio svolto. È la stessa realtà che ciascuno di noi sperimenta quando abbiamo il sospetto di essere gli unici a sgobbare e a soffrire, mentre gli altri intanto se la godono. E allora emettiamo sentenze, verso gli altri e pure verso Dio se siamo disposti ad ammetterlo. E presentiamo il conto di quelle cose che ci sembrava di fare gratuitamente, e invece erano salate prestazioni d’amore. Ma quando viene fuori il peggio di noi davanti a Dio non è mai la fine, è l’inizio della nostra salvezza. La risposta di Gesù è una vera e propria chiamata per l’affannata Marta ad accorgersi che esiste una via migliore.
La parte migliore /bis
«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (10,41-42). Non deve essere stata una bella faccia quella che Marta ha assunto sul momento. Gesù non solo scansa la critica, ma elogia persino la sorella fannullona. Non si tratta certo di un’apologia dell’ozio o di un’istigazione al quietismo. Il Maestro annuncia a Marta che c’è una grossa novità di cui Maria si è accorta e di cui sta già godendo, facendosi accogliere ai piedi di colui che è stato accolto dentro la casa. Per incontrare Dio non è più necessario esibire il profilo meno difettato e sfoderare un buon apparato di rappresentanza. Il vangelo annuncia che Dio non si incontra alla fine dei nostri meriti, ma al principio del suo desiderio di entrare nella nostra casa. Poiché in Cristo Dio si fa ospite della nostra umanità, per poterci donare gratuitamente la gioia della sua presenza. Maria ha capito tutto questo e si è assicurata un dono che non può essere tolto da niente e da nessuno. Come Marta anche noi, un po’ tutti distolti da «molte cose» (10,41), abbiamo bisogno di ascoltare questo vangelo dell’unica cosa necessaria. Per quanto ci capiti spesso di amare a compenso e di lasciarci condizionare dallo sguardo degli altri verso la fatica di doverli fare contenti, possiamo in questa domenica ricordarci che nella vita esiste solo una porzione di felicità che non ci può essere mai scippata: è la volontà di Dio per noi, che conosciamo ascoltando la sua parola e mettendola serenamente in pratica. Il fagotto pesante di tutte le cose che ci sembra di (dover) fare ogni giorno per essere felici è in realtà lo zaino del vivere sotto esame, che possiamo scegliere di lasciare definitivamente a terra. Per quante cose, grandi o piccole, siamo costantemente chiamati a fare, ciò che davvero conta non è quello che le nostre mani possono produrre, ma l’accoglienza di un amore che ci precede e ci accompagna sempre. Questo amore infinito di Dio, che risplende nel volto e nella parola di Cristo, è la parte migliore che dà pienezza e pace al cuore. L’unica cosa per cui vale la pena vivere e morire.
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