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Venerdì – XIII settimana del Tempo Ordinario
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La slegatura da paura e attaccamento è obbedienza a Dio che conduce la casa di Abramo dentro una storia di benedizione, dove la morte non diventa più parola ultima, ma passaggio che introduce in altra vita.
Poi Abramo si staccò dalla salma (di Sara) e parò agli Ittiti:
«Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi,
perché io possa portar via il morto e seppellirlo» (Gen 23,3-4)
Alla morte della moglie Sara, Abramo è ormai diventato un vero povero, un autentico servo del Signore. Durante i giorni del suo pellegrinaggio terreno si è abituato ad ascoltare la voce di Dio e a ricevere ogni cosa dalle sue mani. Quella voce che lo aveva chiamato a uscire da se stesso e dalla propria terra, per diventare erede di divine promesse, ormai è una lampada che brilla dentro il suo cuore. Sebbene l’unico fazzoletto di terra posseduto — dopo lunghi anni di fede e di cammino — sia soltanto un sepolcro per sua moglie, Abramo è pienamente convinto di aver compiuto un esodo dal quale non si può più tornare indietro.
Gli disse il servo: «Se la donna non mi vuol seguire in questa terra,
dovrò forse ricondurre tuo figlio alla terra da cui tu sei uscito?».
Gli rispose Abramo: «Guàrdati dal ricondurre là mio figlio!» (24,5-6)
Il santo viaggio a cui il Signore Dio invita ciascuno di noi è un’esigente avventura di libertà interiore. Pur essendo un dono, esige tutta una serie di scelte e distacchi che, nel tempo, diventano le condizioni di possibilità affinché la nostra storia possa portare il suo frutto. Anche — e sporattutto — quando in essa si manifesta quella dolorosa morte intimamente connessa all’esperienza del peccato.
Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi».
Ed egli si alzò e lo seguì (Mt 9,9)
La paralisi inferta in noi dal peccato non è una alleanza incurabile con il male, ma l’esperienza attraverso cui impariamo ad assumere lo sguardo misericordioso di Dio per (non) giudicare noi e gli altri. È l’occasione più limpida per capire che proprio ciò che stiamo soffrendo o patendo può diventare il luogo in cui siamo pazientemente richiamati dal Signore all’esodo verso la terra delle sue promesse. Sentirsi estranei da questa povertà ci lascia privi della grazia del vangelo.
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (9,12-13)
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