Letture: At 14,21b-27 / Sal 145 / Ap 21,1-5a / Gv 13,31-33a.34-35
CIRCOSTANZE (S)FAVOREVOLI
Se ascoltiamo la voce del Figlio di Dio - diceva il vangelo domenica scorsa - siamo proprio in buone mani, quelle di un Padre celeste che ci vuole bene e che desidera introdurre la nostra vita in una dimensione piena e duratura. Siamo pecore infatti, libere e intelligenti, ma continuamente bisognose di ritrovare l’orizzonte in cui progettare, scegliere e agire per il meglio. La liturgia di questa domenica ci ricorda che è l’amore questo orizzonte essenziale a cui fare ritorno, cioè conversione. Non l’amore infantile e banale che, presto o tardi, non sappiamo più né dare, né ricevere. Quello folle e meraviglioso di cui il vangelo mai si stanca di parlarci, di cui Dio è capace e ci rende capaci.
Quando
«Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo]...» (Gv 13,31). Comincia così il vangelo di questa domenica, con un particolare tutt’altro che irrilevante. Il riferimento al discepolo Giuda, che ha appena raggiunto la decisione di consegnare il suo Maestro alle autorità religiose dei Giudei, è il colore di fondo di questo breve vangelo domenicale. Tutte le parole che il Signore ha poi pronunciato e che noi proviamo a meditare si collocano in questo contesto assolutamente sfavorevole. Il clima attorno a Gesù e al suo dirompente messaggio evangelico è diventato ormai tesissimo. I capi dei Giudei lo vogliono far fuori, tra i discepoli serpeggia un clima di paura e incertezza, uno di loro - addirittura - ha ormai deciso di farla finita e di venderlo, accordandosi per una cifra pari a trenta denari. La profonda sensibilità del Signore Gesù respira fino in fondo questo tragico momento e lo custodisce nel cuore con estrema delicatezza. Ma non si lascia inghiottire dall’apparente tenebra che sta attraversando i cuori di tutti, compreso il suo. Proprio quando tutto sembra finito, ogni speranza ormai scomparsa all’orizzonte, Gesù trova qualcosa da dire, pronuncia parole talmente decisive da dipingere davanti agli occhi dei discepoli come «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1).
Adesso
«Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito» (13,31-32). Il Signore annuncia che questa circostanza funesta che sta vivendo è, in realtà, un momento specialissimo in cui la sua stessa vita acquista rilevanza. La gloria, infatti, nel linguaggio biblico è il peso che una realtà porta con sé, la densità di importanza di un fatto o di una persona. Gesù afferma che il suo essere tradito da Giuda non è per lui un limite, ma piuttosto l’occasione attraverso cui la sua vita può mostrare tutta la sua consistenza. Suonano parecchio strane queste parole del Maestro, conviene ammetterlo. Quando il gioco si fa duro, è vero che i duri cominciano a giocare. Ma solo quando i duri, appunto, hanno forza, salute e magari un po’ di soldi nel portafoglio. Il più delle volte, quando la vita ci investe sulle strisce pedonali con i suoi imprevisti, noi non siamo né duri, né ottimisti. Siamo invece deboli, sconvolti e incavolati marci. Eppure il Signore Gesù sembra conoscere un tesoro nascosto nelle tenebre di questi momenti, che tutti attraversiamo. Una speciale qualità che la vita umana possiede, che è importante per noi scoprire e assumere. Gesù sembra avere qualcosa da poter dire di fronte al nostro peccato, al male che il nostro cuore è capace di emettere.
Novità
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). L’amore è la paziente risposta - sempre nuova e inattesa - al nostro tradimento, la reazione di Dio alle nostre continue emorragie di umanità. Proprio mentre viene venduto e messo a morte, Gesù ci propone una strada nella quale «le cose di prima» diventano «passate» (Ap 21,4), ci indica un percorso capace di fare «nuove tutte le cose» (21,5), compreso il nostro peccato, la nostra invincibile debolezza. E ce lo propone, perché egli stesso - in quanto Dio fatto uomo - ne sta facendo esperienza. La novità del «comandamento della carità» (cf. Colletta) contenuto nel vangelo non è tanto legata al suo contenuto, quanto al suo rifermento alla persona di Cristo. Ed è proprio questo tipo di amore, tutto speciale, che noi possiamo imparare a ricevere e restituire. Soltanto nella misura in cui sperimentiamo sulla nostra pelle con quanta mansuetudine e rispetto il Signore ci tratta quando siamo brutti e sbagliati, fiorisce in noi la capacità di fare altrettanto con l’altro. Il comandamento nuovo di Gesù è prima di tutto un invito a riconciliarci con la nostra debolezza e con il nostro peccato davanti al volto del Padre. Fintanto che ci sentiamo buoni e ci sforziamo di esserlo, il nostro amore puzza di malcelato narcisismo. Solo quando ci esponiamo alla nostra debolezza e ci abbandoniamo alla misericordia di Dio, diventiamo capaci di amore autentico. I buoni non sanno amare. Solo i cattivi perdonati lo sanno fare. Solo discepoli che hanno conosciuto il loro limite e la risposta di Dio al loro limite sono capaci di mostrare il volto indimenticabile del Maestro Gesù. I cristiani sono superbi smontati, saccenti umiliati, persone crollate finalmente dai propri piedistalli, persone capaci di servirsi gli uni gli altri, perché a loro volta serviti dall’amore di Cristo. Gratuitamente, senza alcun merito. Questi sono i lineamenti dell’amore cristiano. Solo vedendo questo amore umile il mondo può conoscere il meraviglioso volto di Dio: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Dio ha assoluta fiducia nella nostra capacità di mostrare il suo volto, perché siamo suoi figli. Si fida della povera umanità di questa sua chiesa che è una povera assemblea pieno di Spirito Santo, una carrozzone di peccatori che diventano santi, un’esperienza di debolezza che si trasforma in forza. Questa chiesa che non ha ancora finito di essere, per tutti gli uomini, segno di salvezza. Questa chiesa che adesso siamo noi.
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