LA FACCIA SCOPERTA
Come mai dopo aver fatto il bene ci capita di soffrire? Quante volte questa domanda affiora nella nostra coscienza, alla ricerca disperata di risposte e parole che non arrivano mai. Anche il buon Tobi, dopo aver rinunciato al suo pasto con estrema prontezza per dare sepoltura ad un corpo morto e abbandonato, raccoglie un’amara ricompensa per le sue «elemosine» e le sue «buone opere» (Tb 2,14).
Volendo adempiere alle prescrizioni della Legge, per cui occorreva purificarsi dopo essere entrati in contatto con un cadavere (cf Nm 19,14-16), Tobi dorme fuori di casa «sotto il muro del cortile», con «la faccia scoperta» a causa del «caldo» (Tb 2,9). Alcuni «passeri» fanno cadere sui suoi occhi «escrementi caldi» che lo rendono cieco «per quattro anni» (Tb 2,10). Povero Tobi, che triste sventura!
Proseguendo il filo della narrazione, ci accorgiamo che questo pio israelita, fedele alle prescrizioni e ai gesti pietà manifesta però anche qualche ombra con il suo comportamento. Appare come un tipo un po’ scrupoloso, a giudicare dall’esagerata diffidenza nell’accettare il «dono di un capretto per il desinare» che la moglie Anna ha ricevuto dai suoi «padroni» (Tb 2,12), ma che egli è convinto sia oggetto di furto.
Acquista allora un forte valore simbolico la cecità di quest’uomo che si è abituato a praticare nei confronti di Dio e della vita un’obbedienza cieca. Sembra quasi una manifestazione visibile e corporea di un più profondo malessere invisibile e spirituale. Talvolta le nostre osservanze religiose e la nostra condotta morale rischiano davvero di trasformarsi in una gabbia di precetti rigidi che, alla fine, funzionano come una cella di prigionia dalla quale non siamo più capaci di uscire. Corriamo un rischio enorme quando ci illudiamo di difendere la fede insistendo sulla rigida osservanza di precetti religiosi, a scapito della libertà e del valore delle persone. Così facendo diventiamo incapaci di cogliere la gioia nella vita quotidiana e ci chiudiamo tragicamente all’amore per gli altri proprio quando affermiamo di volerlo difendere.
È un po’ il problema che spinge i «farisei e gli «erodiani» e tendere un tranello al Maestro Gesù «per coglierlo in fallo nel discorso» (Mc 12,13): «È lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?» (Mc 12,14). Quando Dio non è il fondamento della nostra vita, ma una delle persone a cui dobbiamo dare qualcosa, allora si crea una grande confusione dentro di noi, che ci impedisce di capire cosa dobbiamo fare per vivere bene. La domanda posta a Gesù è il tentativo di sgravarsi la coscienza dalla fatica di discernere il quotidiano, perché le cose da fare sembrano troppe e i padroni a cui obbedire eccessivamente esigenti.
La risposta di Gesù, il Maestro che non guarda «in faccia» (Mc 12,14) la nostra «ipocrisia» (Mc 12,15), è semplice e illuminante: «Rendete a Cesare ciò che è di di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12,17). A tutti bisogna dar retta, ma non tutti hanno la stessa importanza! Solo a Dio bisogna dare la vita. A tutti gli altri padroni e a tutte le altre leggi che regolano la nostra esistenza va data un’osservanza sincera e ragionevole, che mai deve diventare sproporzionata o eccessiva. Altrimenti stiamo facendo diventare un idolo il bene che il Signore ci dona di compiere e cominciamo a non saper più valutare la realtà con le sue differenze. Stiamo diventando ciechi, perché abbiamo scoperto troppo il nostro volto.
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