Letture: At 15,7-21 / Sal 95 / Gv 15,9-11
Il brano degli Atti degli apostoli ci racconta l’interessante epilogo della prima «lunga discussione» (At 15,7) che la chiesa dovette affrontare. La questione non era certo semplice né banale: i pagani che venivano alla fede ascoltando «la parola del Vangelo» (At 15,7) dovevano forse osservare tutta la legge di Mosè? Gli apostoli e gli anziani, dopo aver ascoltato «Paolo e Barnaba», uomini che avevano «votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo» (At 15,26) si orientarono verso una decisione che rimane un’acquisizione fondamentale per la fede cristiana.
Pietro si alzò nell’assemblea e disse: «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati» (At 15,11). A queste parole si aggiunsero quelle di Giacomo, il «fratello del Signore» (Gal 1,19): «Io ritengo che non si debbano importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue» (At 17,19-20).
La risposta di Pietro, il discepolo che aveva conosciuto profondamente la misericordia del Signore, fu più netta e radicale. Quella di Giacomo maggiormente prudente e sensibile ad evitare la formazione di scandali all’interno della comunità eterogenea che si stava componendo. In questo senso vanno comprese le raccomandazioni per i pagani a non sentirsi così liberi da usare cose che avrebbero potuto scandalizzare la fede di altri fratelli. Tuttavia fu senza ambiguità la soluzione della chiesa di fronte a questo primo problema dogmatico: il Dio che «conosce i cuori» (At 15,8) di tutti e non fa «nessuna discriminazione» (At 15,9) ha deciso di far conoscere ad ogni uomo la sua salvezza e il suo amore, concedendo «lo Spirito Santo» (At 15,8) e purificando così «i cuori con la fede» (At 15,9) nel Signore Gesù. Questa fu un’acquisizione importantissima, che serve ancora a noi oggi per raddrizzare quotidianamente i sentieri della nostra fede. Ci ricorda infatti che per il nostro cammino di fede è necessario e sufficiente rimanere nell’amore di Gesù (cf Gv 15,9), come lui stesso nel Vangelo ha comandato.
Rimanere è un verbo statico, che può anche sembrare una misera attività per gente del terzo millennio abituata a muoversi tanto e frettolosamente. Eppure è davvero l’atteggiamento più saggio da assumere di fronte ad un Dio che ha compiuto tutto ciò che a noi serviva per essere salvati dal peccato e dalla morte: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (Gv 15,9). Non è davvero poca cosa questa notizia che tutti i giorni, puntualmente, dimentichiamo!
Passiamo larga parte della nostra vita cercando indizi di amore, segni di apprezzamento. Nei momenti peggiori andiamo elemosinando anche solo un sorriso, una piccola attenzione nei nostri confronti, arrivando persino a buttarci via pur di stringere tra le mani una caparra di affetto, il calore lieve di una carezza. E ci dimentichiamo questa cosa bellissima, che può davvero scaldarci il cuore fino in fondo: il Signore ha dato la sua vita per noi. Ne siamo sicuri: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).
Dobbiamo solo imparare a «rimanere» in questo amore, ad abitare ogni giorno nelle parole, nelle preghiere, nelle liturgie della chiesa che questo amore ce lo fanno comprendere e celebrare. Se capissimo che Dio ci chiede soprattutto questo: lasciarci amare, lasciarci riempire di quella gioia che nasce dal sentirsi voluti bene!
La conferma di rimanere in questo amore ci viene da una vita conforme alla sua: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Quando proviamo anche noi ad amare come il Maestro ha fatto, non bloccandoci impauriti davanti alle nostre piccole forze e alle nostre sconfitte quotidiane, allora rimaniamo nel suo amore. Infatti l’esperienza umana ci mostra come sia spontaneo condividere la vita, le scelte, i pensieri, le preoccupazioni della persona amata. Con Dio accade la stessa cosa. Noi rimaniamo nel suo amore, nella misura in cui desideriamo partecipare al suo modo di vivere, abbracciando liberamente i suoi criteri di valutazione che ci conducono a prendere ogni giorno la nostra croce e a camminare insieme a lui verso la risurrezione.
Molte volte invece smettiamo di rimanere nell’amore di Gesù e allora ci capita di imporre «sul collo» degli altri inutili gioghi «che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare» (At 15,10). Ci succede di pretendere dagli altri tutte quelle cose che noi per primi non riusciamo a vivere fino in fondo: la coerenza, la misericordia, la giustizia. E finiamo col creare molte tensioni. E le cose non cambiano mai.
Le cose cambiano invece quando ci lasciamo amare da Dio, quando diventiamo capaci di accogliere, valorizzare, rispettare l’altro nella sua diversità. Persino nel suo peccato. Questo in fondo è essere cristiani: amare! Magari non essere d’accordo, ma continuare a camminare insieme.
Perché il Signore ci dice queste cose? Perché il Signore ci rilancia a questi altissimi traguardi? La risposta l’ha data già lui nel Vangelo, conoscendo in anticipo la nostra paura e il nostro desiderio: «Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Per questo dobbiamo convertirci ancora: per essere felici, per conoscere una gioia più grande!
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